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In questo libro testimoniale, Mario Benedetti sembra volerci dire, con la sua sensibilissima e concreta parola, che una luce piana e discreta, una luce di umana verità, vive, sempre, anche nel dolore, nel senso acuto della perdita, nell'osservazione diretta o nel presagio stesso della morte. Utilizza elementi di un'esperienza personale radicata in luoghi e figure di una realtà intima e familiare, e li fa vibrare, nella loro semplicità materica e opaca, oltre i confini naturali, come emblemi vissuti di una condizione umana universale. Istituisce l'immagine di un suo doppio, di un sosia coinvolto nella cronaca infelice che si porta via nel tempo, o in un breve tempo, o in un tempo che è comunque sempre troppo breve, gli esseri umani che incarnavano i suoi maggiori legami affettivi, come la madie, il padre e un fratello, e riconduce tutto a un quadro di umile autenticità in cui si "impara a vivere poveramente"", in cui il primo attore o sosia riesce, o vi è costretto da necessità, a ""ved