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Una voce monologante, tragica e disperata, trascina il suo lamento lungo tutto questo frammentario poema drammatico. E’ la voce di un poeta, povero Faust solitario partito all’esplorazione delle sua coscienza e giunto alla visione del vuoto e dell’abisso. Ma è anche una delle ‘voci’ che abitarono Pessoa, uno dei suoi fantasmi, in questo caso con un’anagrafe e una biografia solo culturali, che parla dentro il poeta come un’ossessione e una maledizione. Denominato da Pessoa ‘tragedia soggettiva’, questo ‘Faust’ astratto e metafisico ha ormai lasciato l’ideale faustiano della Conoscenza e del Progresso per cantare l’inanità della vita, l’impossibilità di conoscere, il terrore della morte. Se accettiamo il suggerimento di Roman Jakobson di leggere Pessoa nel contesto dei grandi artisti mondiali nati sul limitare del Novecento, in compagnia di Stravinsky e di Joyce, non possiamo negare che questo ‘Faust’ soggettivo somigli a un ‘notturno’ suonato su una partitura di Stravinsky, ad una voce