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Anima "dedita al suo fine"", giardiniere ""in un giardino smisurato"", fanciullo heideggerianamente ""destinato-a-scrivere"", l'io lirico che abita queste pagine sente l'arduo compito che gli è stato affidato: ""triturare l'apparenza, sfondare i limiti del senso"", rammemorare al lettore l'unità profonda di spirito e vita, presenza e memoria. Ogni oggetto materiale, ai suoi occhi, si fa simbolo, ravviva ""lontananze irriducibili"", svela patti, alleanze, l'eden che fu prima della storia, e prima di ogni diaspora, ""il quid che unisce rocce a scheletri"". Al pari di un monaco medievale - evocato nella poesia d'esordio - egli sa di non essere che uno strumento di potenze più alte: sul modello sublime dell'opera dantesca, si fa umile scriba, si limita a trascrivere ciò che gli viene dettato. Non gli sfugge la difficoltà del compito, l'irriducibilità della parola, la forza oscura e contraddittoria dei fatti: eppure non rinuncia alla sua caccia spirituale, a invocare i suoi nomi, i suoi luoghi fatali e privilegiati: ""il mio giardino / e un bimbo, un arcipelago / in tempesta, e tutto intorno Genova, / scalena e verticale"". Nel catino di un'infanzia ormai remota, nelle letture che lo emozionarono un giorno, era già la radice di ogni dopo: l'aurea isola di Stevenson conteneva ben altre mappe, ben altri tesori. Come già le bellissime prose di ""Il mondo senza Benjamin, L'opera in rosso"" parla di una vocazione poetica, e del senso profondo di ogni fare poetico. Presentazione di Gian