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Tropicario italiano è l’esercizio di un’intelligenza che misura lo stacco tra mondo e catalogo, tra i luoghi e il loro marketing: turismo egosostenibile, con un occhio al Novecento «viaggiato» da grandi scrittori italiani – Moravia, Pasolini, Soldati, Manganelli – e l’altro alla fotocamera dell’iPhone.rnrnEsistono ancora i viaggi? Nell’epoca dei voli low cost e del muoversi a tutti i costi un romanziere e intellettuale pentito ci racconta sostanze e accidenti del turismo contemporaneo, squadernato davanti ai suoi occhi come una specie di tragicommedia. I luoghi sono quelli, favolosi (stando ai cataloghi), di un’estate infinita che parla la lingua automatica e un po’ ottusa di spiagge ovunque bianchissime e acque implacabilmente turchesi. A passeggio per un giardino botanico dell’Île Maurice o inseguito da una muta di feroci randagi a Bora Bora, avvolto dal cinismo analfabeta dell’upper class italiana in trasferta alle Maldive o sprofondato nella calura isterica di Dubai, bagnato dalle acque mitologiche di Surfers Paradise o alla ricerca di un peluche smarrito in mezzo a un branco di gnu in Tanzania, Patriarca non perde mai il focus del suo sguardo: turismo come distopia, necessità di un trauma. rnrnrn «Se chiedi la posizione al Gps o a Google Earth scopri di occupare grosso modo il centro di una grandiosa cupola d’acqua, un’immane semisfera equorea, una roba che è un terzo del mondo. Ma questa suprema vastità non fa che sottolineare la tua presenza. Ti prende una gioia un po’