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"Ti ho chiamata nube o ferita, colomba della partenza ti ho chiamata penna e libro ed eccomi iniziare il dialogo tra me e la lunga dispersa nelle isole dei viaggi nell'arcipelago dell'antica caduta""rnrnC'è qualcosa di assoluto, di totale e apertissimo, nei ""Canti di Mihyar il damasceno"". Qualcosa di profondamente astorico, di archetipico, ma che pur dimora costretto nei confini della storia e dell'esilio. Il lettore è coinvolto dalla grande potenza liquida e musicale della parola e del verso del poeta (qui tradotto in ottima poesia italiana da Fawzi Al Delmi), che scrisse questi canti nei primi anni Sessanta, subito affermandosi come voce naturale e coltissima di un popolo e di una cultura, quella araba, in virtù della nobile profondità maestosa del suo canto, vibrante e di ampio respiro. «Sono entrato nella liturgia della creazione» dice Mihyar, il grande «santo barbaro», personaggio che consente al poeta di esprimersi nella mirabile tensione di una parola carica di suggestioni, ch