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Una lunga tradizione attribuisce ai reati di contraffazione dei marchi il bene giuridico della pubblica fede, incentrandoli sulla tutela dell'affidamento collettivo dei consumatori nei contrassegni d'impresa e relegando a una protezione riflessa la proprietà industriale dell'esclusivista. I fenomeni di mercato, tuttavia, hanno posto legislatore e interprete di fronte alla realtà della trasformazione del ruolo del marchio, che nella economia globalizzata, e nel diffuso modello di produzione decentrata, diviene, da indicatore di provenienza aziendale, un segno di per sé vuoto di significato, ma capace di attrarre all'acquisto attraverso i contenuti emozionali associatigli con tecniche di branding: dunque un fattore di vendita, e un valore rilevante dell'attivo d'impresa. Muta, così, pelle anche il consumatore, che da 'parte debole' dello scambio esposta al pericolo di frodi diviene propulsore individuale e collettivo di comportamenti illeciti di mercato, avendo assunto, quale collateral damage della forza attrattiva esercitata dal marchio, il ruolo di 'attore della domanda' di merci contraffatte low cost, capace di stimolare sul versante dell'offerta strutture organizzate di produzione e distribuzione del falso. Il diritto industriale ha adeguato la disciplina del marchio, costruendolo come diritto di proprietà dell'esclusivista, liberamente disponibile seppure coi limiti che il neminem laedere pone anche alla proprietà classica. Il diritto penale è invece rimasto a lungo intra